Oggi ricorre la “Giornata Internazionale per l’Aborto libero e sicuro”, a testimoniare come, ancora oggi, questo diritto non sia garantito adeguatamente.
Il 22 maggio scorso si è parlato molto del quarantesimo anniversario della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Legge approvata, appunto, il 22 maggio del 1978 e, fin da subito, apertamente contrastata dai “Movimenti per la Vita” e politicamente appoggiata dai Radicali di Pannella e Bonino. Nel 1981 entrambi gli schieramenti chiesero due referendum: il primo per l’abolizione della 194, il secondo per una riscrittura più ampia della legge per garantire maggiori tutele. Entrambi non raggiunsero il quorum e la legge 194 restò immutata, come immutate sono ancora oggi le posizioni di oltre il 70% dei medici obiettori di coscienza in Italia.
Dati positivi, fortunatamente, ce ne sono.
Nel maggio scorso, il Ministero della Salute ha diffuso una relazione sull’applicazione della legge 194 da cui emerge che si ricorre all’aborto sempre più di rado: infatti, nel 2015 gli interventi sono stati solo 84.925, contro i 234.801 del 1983 (numero massimo mai raggiunto su base annua). Rimane elevato, però, il ricorso all’interruzione di gravidanza delle donne immigrate, che usano di meno i contraccettivi ormonali per vari motivi, in particolare per le difficoltà di accesso al sistema sanitario. Secondo il Ministero della Salute, il calo degli aborti in Italia è dovuto a diversi fattori: in particolare il tasso più alto d’istruzione, ma anche una maggiore diffusione dell’uso della contraccezione (anche se l’Italia, in quest’ultimo frangente, rimane indietro rispetto ad altri Paesi europei). Un fattore importante è stato, dal 2015, l’introduzione della cosiddetta “pillola del giorno dopo”.
In quella relazione, però, non viene tenuto conto che l’accesso a questo farmaco da banco (quindi acquistabile in ogni farmacia aderente) ha portato ad un incremento del suo acquisto e del suo uso “casalingo”, a scapito di un intervento presso strutture mediche, igieniche e sicure: nel 2015 le confezioni acquistate (anche da ragazze molto gioviani) sono arrivate a sfiorare le 83.346 unità in tutta Italia.
Un altro elemento importante da tenere in considerazione è l’aumento del fenomeno dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi e i paramedici, soprattutto in Meridione, dove si raggiunge l’80% degli obiettori di coscienza (in Sicilia arriviamo all’89,1%). Va menzionato, quindi, il lavoro delle attiviste dell’associazione femminista “Non una di meno”, che stanno cercando di sensibilizzare sull’obiezione di coscienza e di far notare quanto possa essere rischioso abortire in casa piuttosto che in una struttura ospedaliera.
A sostengo dell’insofferenza degli obiettori, va citata la ricerca di Kellerhals e Pasini sul fenomeno delle “recidive”: molte donne, in particolare nel Meridione, tendono ad abortire ripetutamene (dai cinque agli otto aborti l’anno) e ad incrementare l’obiezione di coscienza. Ovvio, lo studio è circostanziale, ma il fenomeno non proprio: va detto che in contesti in cui l’istruzione è scarsa (anche in termini di educazione sessuale) si registra un considerevole aumento di aborti. Il discorso è molto articolato e piuttosto complesso, perciò consiglio la lettura del saggio “Aborto: perdita e rinnovamento” della psicanalista Eva Pattis Zoja dove questo studio viene ampiamente newdescritto e contestualizzato.
In tutto ciò, secondo me, l’inutilità della strumentalizzazione politica della legge 194 è indubbia, in quanto essa stessa poco attuale rispetto alle reali necessità di chi oggi ne fa uso. Come spesso accade (quando di mezzo si mettono interessi politici ed economici), si perde di vista l’umanità e l’empatia che prima di tutto andrebbe usata in situazioni di sofferenza.
Lavoro con moltissime ragazze e donne che stanno vivendo nel silenzio il loro lutto. Un silenzio imposto socialmente, ma che danneggia gravemente chi desidera, invece, urlare il proprio dolore.
Negli occhi di chi accompagno con il mio lavoro vedo ancora troppa vergogna, rabbia e frustrazione, che andrebbe ascoltata e accolta. La nostra una società rifiuta di vedere la sofferenza, la malattia e la morte come compagne naturali della vita ed impone a queste donne un isolamento e un silenzio che creano ancora più rumore.
Molto spesso si pensa che chi sceglie volontariamente di abortire non ne soffra. Spesso si dimentica che, fino a pochi decenni fa, di parto si moriva, e che ancora oggi alcune gravidanze sono pericolose. Non tutte le donne che usano la legge 194 sono delle “sprovvedute” o delle “puttane”: molte hanno mariti che impongono loro di non usare contraccettivi (pena l’esser picchiate a morte) e che non desiderano occuparsi di eventuali figli indesiderati, lasciandole sole a gestire un evento che dovrebbe essere circondato da sentimenti d’amore e rispetto tra coniugi.
Come detto negli articoli proposti lungo tutto il mese, quando parlo di aborto in me non c’è giudizio, ma il desiderio di portare all’attenzione un aspetto del discorso che viene tristemente e volutamente trascurato: l’isolamento e la sensazione di solitudine di chi vive un trauma come questo.
La mancanza di umanità e di empatia da parte dei suoi simili è la piaga peggiore che una persona possa subire.
Tutti coloro che si attivano “pro o contro” l’aborto non tengono davvero in considerazione quanto sarebbe necessario fare un passo indietro e guardare il fenomeno con una lucidità che manca da troppo tempo.
Nessuna delle donne che usa la legge 194 vorrebbe fare ciò che fa. Tutte si trovano a fare i conti con il senso di colpa, con la vergogna, con una ferita aperta che non si rimarginerà mai. Nessuna delle donne che usa la legge 194 vorrebbe usarla, ma la società in cui vive non le lascia scelta: se vuoi far carriera, se vuoi essere “uguale” agli uomini, se devi compiacere il marito, se, se, se… devi uccidere, altrimenti rimani sola. Questo insegniamo con la nostra indifferenza alle generazione di donne che stanno crescendo nel nostro Paese.
Nel mio piccolo, do spazio al loro grande dolore. Nel mio piccolo, le ascolto e permetto loro di esprimere la sofferenza che provano senza sentirsi giudicate per questo. Una volta una donna mi disse che dopo l’operazione in ospedale la lasciarono da sola in un angolo; sopraffatta dalle emozioni, la donna si mise a piangere. Un’infermeria arrivò da lei e le disse: “Non piangere, non te lo meriti”. Una donna che si rivolge così a un’altra donna è una sconfitta per tutto il nostro sistema sociale e culturale. Un malato che soffre e una donna che vivrà per sempre nel rimorso, non hanno forse diritto alla stessa dignità? Questo bisogna insegnare ai nostri figli e nipoti: ad essere delle persone migliori di noi.
Spero che questo mese di articoli sul tema dell’aborto ti abbia stimolata a riflettere su di te, sulle altre donne e sulla società in cui vivi. Spero che apprezzerai la mia volontà di portare l’attenzione alla dignità di tutti gli individui che esprimono il loro diritto al libero arbitrio. Spero che mi scriverai per darmi un tuo parere sull’argomento così da permettermi di proporti temi e discorsi sempre più interessanti.